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Il Mito della Caverna

Ultimo Aggiornamento: 06/10/2014 11:26
23/08/2014 13:33
 
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Cari Amici,
all’inizio del settimo libro della Repubblica in filosofo Platone narra del mito della caverna.

In esso si ritrova la teoria platonica della Conoscenza, ma anche si ribadisce il rapporto tra il
filosofo (ossia l'iniziato) e impegno di vita.
Conoscere il Bene significa anche praticarlo; l'iniziato che ha contemplato la Verità del Mondo delle Idee
non può chiudersi nella sua torre d’avorio: deve tornare, a rischio della propria vita, fra gli uomini,
per liberarli dalle catene della conoscenza illusoria del mondo sensibile.

Propongo la lettura di queste pagine poichè ritengo siano strettamente connesse all'Esoterismo
e alle tematiche che mi stanno a cuore.

Lo possiamo commentare insieme se qualcuno ne ha voglia,
se qualcuno è interessato a liberarsi dai ceppi della prigionia.


Torniamo a noi... Socrate parla in prima persona; il suo interlocutore è Glaucone.


Repubblica, 514 a-517 a

Socrate: In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e
mancanza di educazione, a un’immagine come questa.
Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la
larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati
gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena,
di volgere attorno il capo.
Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada.
Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle
persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.

Glaucone: Vedo, rispose.

Socrate: Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti
dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale,
alcuni portatori parlano, altri tacciono.

Glaucone: Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri.

Socrate: Somigliano a noi, risposi, credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei
compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?

Glaucone: E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?

Socrate: E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?

Glaucone: Sicuramente.

Socrate: Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti
reali le loro visioni?

Glaucone: Per forza.

Socrate: E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti
facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?

Glaucone: Io no, per Zeus!, rispose.

Socrate: Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.

Glaucone: Per forza, ammise.

Socrate: Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza.
Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente
ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che cosí facendo provasse
dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre.
Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora,
essendo piú vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi piú essere, può vedere meglio?
E se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a
rispondere che cosa è?
Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe piú vere le cose che vedeva prima di quelle che gli
fossero mostrate adesso?

Glaucone: Certo, rispose.

Socrate: E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe
volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista?
E non li giudicherebbe realmente piú chiari di quelli che gli fossero mostrati?

Glaucone: È cosí, rispose.

Socrate: Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lí a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo
si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato?
E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere.

Glaucone: Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso.

Socrate: Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente,
le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti
stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti
e il cielo stesso piú facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole.

Glaucone: Come no?

Socrate: Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle
acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.

Glaucone: Per forza, disse.

Socrate: Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni
e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi
compagni vedevano.

Glaucone: È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà cosí.

Socrate: E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di
prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?

Glaucone: Certo.

Socrate: Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi riservati a chi fosse
piú acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e piú rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme,
indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori
e potenza? O che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe "altrui per salario servir da contadino,
uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?

Glaucone: Cosí penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo.

Socrate: Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a
sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole?

Glaucone: Sí, certo, rispose.

Socrate: E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre
prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale?
E se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso?
E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare
di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero,
se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?

Glaucone: Certamente, rispose. [...]

(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg. 339 - 342)

Fonte: www.filosofico.net

[Modificato da M. di Caraba 23/08/2014 13:35]
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